Narda Zapata

(La Paz, Bolivia, 1981)
Narda Zapata si è laureata in arti plastiche all’Universidad Mayor de San Andrés e ha un master in storia dell’arte contemporanea all’Universidad Metropolitana de Caracas. Dal 2005 al 2008 ha seguito seminari con Roberto Valcárcel. Nel 2007 ha fondato il collettivo Aschoy finalizzato alla ricerca e alla realizzazione di diverse forme d’arte partendo dalla cultura popolare come fonte di un dialogo orizzontale nel processo di creazione e nel 2008 ha collaborato con Jannis Kounellis per un progetto presentato all’ex stazione ferroviaria di La Paz.
Il suo lavoro è presente in varie collezioni private di La Paz, Santa Cruz de la Sierra, Caracas, Roma, Salerno, Berna, Zurigo, Emirates, Tokyo, Lucca, Miami, New York. Suoi lavori sono inoltre presenti nella Collezione THOA – Taller de Historia Oral Andina, nella Galería Altamira di La Paz e nella Collezione dell’Universidad Mayor de San Andrés di La Paz.
Tra i premi si ricordano Premio del Salone Pedro Domingo, La Paz 2007, SIART 6th International Art Biennale (primo premio per la scultura sociale), La Paz 2009 e Arteam Cup 2022, Palazzo del Commissario (vincitrice sezione fotografia), Savona 2022. Personali degli ultimi due anni Allá Allí Allú. Otros lugares, otros tiempos, Centro Cultural Museo San Francisco (La Paz 2024), Le memorie del cielo e della terra, con Ilaria Gasparroni, Kyro Art Gallery (Pietrasanta, 2023), Vuelo a morar en ignorada estrella, IILA Istituto Italo-Latino Americano (Roma 2023), Misterios, Kyro Art Gallery (Pietrasanta, 2023).
CELLA N. 5
Sala de espera di Narda Zapata
Realizzato per l’ex carcere di Savona, Sala de espera è un progetto che pone l’attenzione su un’attesa da intendersi come speranza nata dal livello ultimo della disperazione, come tempo altamente dilatato (concentrato tra un prima e un dopo), come aspettativa di qualcosa che potrebbe avverarsi ma che lascia i personaggi inevitabilmente immobili, inerti, ancorati in una insolita e stordente perennità.
Installati a pavimento, 12 clientes – figure beneaugurali della tradizione andina – realizzati in caolino diventano, grazie alla loro assenza di colore, punto focale per lo spettatore che può muoversi nell’ambiente osservandoli da un diverso punto di vista. Ogni singolo clientes è agganciato a una base in metallo grezza, un avanzo di materiale utilizzato per cancellate, dunque per porte che si aprono o si chiudono, e sta a indicare metaforicamente la singolarità, l’unicità, l’individualità di esseri che, per paradosso, hanno perso la propria identità e sono diventati scarti.
Quasi a ricordare le 12 ore del giorno e le 12 ore della notte, il tempo che una persona trascorre tra le pareti della cella, queste presenze descrivono infatti persone disperate che vivono in istituzioni totali (asylums quali carceri, manicomi, brefotrofi, ospizi, campi di lavoro coloniale, persone che vivono sottoposte a un regime disciplinare rigido e a un’insostenibile organizzazione gerarchica), dunque cancellate dalla società, rifiutate dal moralismo e rese nullità, rifiuto, residuo.
Nell’ambiente in cui questi esseri sembrano rinchiusi nel buio della loro mente, una traccia audio diffonde la registrazione di alcune preghiere o anche di alcune poesie recitate in diverse lingue e legate tutte a una speranza di libertà, al desiderio di uscire dall’oscurità, al rimpianto e alla nostalgia.