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Federica Gonnelli

Federica Gonnelli

Federica Gonnelli (Firenze, 1981) frequenta il Liceo Artistico e l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Vive e lavora tra Firenze e Prato, dove nel 2011 apre InCUBOAzione. Il confine caratterizza il suo percorso, ogni velo d’organza o doppia esposizione concorrono nel significato dell’opera, imponendo agli osservatori uno slancio. Attiva dal 2001, nel 2006 consegue la laurea, dal 2007 fa parte di Arts Factory e nel 2013 consegue la specializzazione. Dal 2023 è accademica d’onore dell’Accademia delle Arti del Disegno.

www.federicagonnelli.it

CELLA EX CARCERE SANT’AGOSTINO
Resta ciò che cambia. Ciò che cambia, resta

Con Resta ciò che cambia. Ciò che cambia, resta, due progetti distinti accomunati dalla riflessione sull’indeterminatezza, si uniscono in un’unica installazione all’interno della cella. Nell’indeterminatezza della società resta ciò che cambia, ciò che ha la capacità di reagire al cambiamento e nella mutevolezza ciò che cambia, ciò che ha valore, resta.
Nell’opera l’indeterminatezza, il cambiamento, la mutevolezza sono simbolicamente e materialmente rappresentati dall’azione del calore e del fuoco, dal liquefarsi a causa del calore e dal fatto che non può esserci fuoco o cenere nello stesso momento, o c’è l’uno o c’è l’altra. In Resta ciò che cambia. Ciò che cambia, resta calore e fuoco pur distruggendo, creano qualcosa. In quel qualcosa gli individui possono ritrovare una o più delle molteplici sfaccettature che formano l’identità, una memoria privata o comune e sviluppare un processo di identificazione personale e collettiva. I vari elementi dell’installazione di Federica Gonnelli, le cose, sono metafora del vivere, attorno ad esse converge l’attenzione di tutti. L’indeterminatezza di questi elementi ha funzione di mezzo di contrasto attraverso il quale guardare più nettamente il nostro quotidiano e mettere in luce più chiaramente il nostro presente, nonostante tutto questo avvenga in negativo, per assenza di determinatezza e la frattura tra le possibilità dell’essere non permetta un immediato riconoscimento.
Nell’opera il tempo del riconoscimento è posticipato più avanti, acquistando una centralità in quanto processo di conoscenza. Il senso viene così a trovarsi nel tempo, che precede il riconoscimento, nell’esperienza della durata come antidoto all’eccessiva velocità di consumo della nostra era. Il senso è nella stratificazione di trasparenze e deve lasciarsi attraversare. La sovrapposizione in profondità contrasta l’eccessiva sovrapproduzione e trasparenza della società contemporanea, nella quale linguaggio e immagini risultano appiattiti da uno scambio accelerato di informazioni.
Il movimento dell’osservatore verso l’installazione, l’attraversamento mentale e fisico, implica il legame tra l’opera e il contesto. L’installazione può essere ogni volta ricostruita a seconda dello spazio entro cui va a posarsi e ci offre la possibilità di affrontare questa epoca di smaterializzazione, dominata dal virtuale, stabilendo una relazione con il luogo, le persone a esso legate, la storia e gli altri osservatori, rispondendo alla precarietà della nostra società.

Intervista a FEDERICA GONNELLI di Giulia Andrea Gerosa

La ricerca di Federica Gonnelli ruota attorno a tre capisaldi tematici: corpo, spazio e tempo, da cui si sviluppano rispettivamente le riflessioni circa identità, confini e memoria. Il lavoro dell’artista fiorentina è basato sulla molteplice stratificazione di materiali, contenuti ed interpretazioni, finalizzati ad una lettura complessiva potenzialmente infinita.
Le opere, chiamate dispositivi dall’artista stessa, vengono attivate dal movimento dell’osservatore che, più o meno consapevolmente, si relaziona ad esse.
Per la seconda edizione di Connexxion, l’artista presenta l’installazione Resta ciò che cambia. Ciò che cambia, resta.

I temi del festival sembrano coincidere, almeno in parte, con la tua ricerca; è un’impressione corretta?
Sì, le tematiche proposte sono per me molto importanti; identità e memoria sono riflessioni presenti fin dagli esordi nelle mie opere, si completano e influenzano reciprocamente, mentre il concetto di libertà, che per me è fortemente legato al tema del confine, è apparso più recentemente. La libertà è un equilibrio sul confine dei diritti e delle necessità, nel segno del rispetto reciproco. In Resta ciò che cambia. Ciò che cambia, resta calore e fuoco, pur distruggendo, creano qualcosa. In quel qualcosa, gli individui possono ritrovare una o più delle numerose sfaccettature che formano l’identità, e sviluppare un processo di identificazione personale e collettiva – che è anche un processo di libertà –, attraverso un ricordo, una memoria privata o comune.

Quale legame sussiste fra il tuo lavoro e il luogo della mostra?
Sono molto attenta a stabilire prima un legame personale e, successivamente, un legame dell’opera con il luogo entro cui è realizzata o inserita, con il contesto in cui si svolge una mostra. L’installazione, può essere ogni volta ri-costruita a seconda dello spazio architettonico entro cui va a posarsi, contrastando la smaterializzazione della nostra epoca dominata dal virtuale. Nello specifico di Connexxion, non conoscevo il luogo della mostra e di conseguenza non avevo legami pregressi con esso, ma posso affermare di aver sviluppato un legame di appartenenza. A partire dal primo sopralluogo svolto insieme ad Alessio Barchitta, durante il quale Livia Savorelli ci ha accompagnati alla scoperta dei vari ambienti dell’ex carcere – ma anche ex convento –, ho percepito un profondo senso di comunità, un’eredità che quelle mura hanno mantenuto e tramandato nei secoli nonostante i cambiamenti di funzione. Questo senso di comunità si è protratto fino ai giorni di allestimento, durante i quali noi artisti abbiamo vissuto insieme bei momenti di condivisione e connessione, dando vita non ad una semplice mostra collettiva, ma a una progettualità complessa e profondamente coinvolgente.

Operare in un contesto così peculiare non dev’essere stato semplice; hai avuto modo di sviluppare delle riflessioni?
Sono entrata in questo luogo con grande rispetto della libertà e, nel rispetto della libertà, ho voluto trattare questo tema senza retorica. In gran parte degli ambienti accessibili e utilizzati per la mostra, vasti, dalle pareti bianche e inondati di luce, le tracce della vita carceraria sono flebili. L’assenza di libertà si percepisce invece fortissima nelle piccole cose che restano, inamovibili, come gli spioncini, le finestrelle di controllo, gli specchi murati. L’assenza di libertà è subdola, celata negli ambienti inaccessibili durante la mostra, per ovvie ragioni di sicurezza, nelle celle chiuse, piccolissime, senza luce, senz’aria, rimaste com’erano, senza niente. Ecco il vero carcere, la vera assenza di libertà, che possiamo trovare qui, in un carcere qualsiasi, ma anche fuori e fino nella nostra mente. Questa riflessione mi riconduce all’ampio tema dei confini, che poniamo e che ci poniamo, di ogni sorta e livello. In proposito vorrei citare una frase di Claudio Magris, tratta da Microcosmi (Garzanti, Milano, 1997): “Ma chi insegna ad aprire? Da tempo non si fa altro che chiudere le porte, è un vero tic; per un po’ si tira il fiato, poi l’ansia riafferra il cuore e si vorrebbe sprangare tutto, anche le finestre, senza accorgersi che così manca l’aria e che l’emicrania, in quel soffoco, martella sempre più le tempie, a poco a poco si finisce per sentire solo il rumore del proprio mal di testa”.

Come hai interpretato i concetti di confine e indeterminatezza in questo caso?
Il confine è un protagonista costante delle mie opere, materialmente e concettualmente, mediante l’utilizzo del velo d’organza e della fotografia a doppia esposizione. Ogni doppia esposizione, come ogni velo, impone uno slancio agli osservatori che vogliono scoprire cosa si cela dietro, oltre il velo. In senso più ampio, il mio è un invito a vivere i confini in modo diverso, affinché si trasformino in soglie labili da attraversare e riattraversare.
In Resta ciò che cambia. Ciò che cambia, resta, due progetti, accomunati dalla riflessione sull’indeterminatezza, si uniscono in una crasi che ricompone, all’interno dello spazio della cella, il corpo dell’opera finale. Nell’indeterminatezza della nostra società resta ciò che cambia, ciò che ha la capacità di reagire al cambiamento, e ciò che cambia, ciò che ha valore, resta. Nell’opera, la mutevolezza è rappresentata dall’azione del calore e dal fatto che fuoco e cenere non possono coesistere nello stesso momento, o c’è l’uno o c’è l’altra. Calore e fuoco caratterizzano, plasmano e modificano tutti gli elementi dell’opera: dai bambinelli di cera alle carte bruciate, dal camino spento al fuoco virtuale, dalla voce al suono; ogni elemento è soggetto al cambiamento causato dall’indeterminatezza.

Secondo te, il pubblico come accoglie la complessità ideativa e strutturale delle tue opere?
Al di là dei contenuti, che possono interessare in modo diverso gli osservatori, la forza delle mie opere sta proprio nel come sono composte, nel loro essere tridimensionali e mutevoli al mutare della posizione dello spettatore. In seguito a Connexxion, ho avuto modo di riflettere ampiamente su un aspetto che segna le mie opere, oggi più che mai. L’osservatore che non ha mai visto una mia opera dal vivo, ma solo attraverso una riproduzione fotografica, al momento del confronto reale, ne rimane sorpreso, al punto di affermare che l’opera, in foto, non rende. Una tale affermazione, in una società che ha le fondamenta nell’immagine e nel virtuale, può apparire tragica. Credo che questa caratteristica sia più evidente adesso rispetto agli inizi, quando ancora i social e l’online non erano così sviluppati e diffusi. Ciò che potrebbe sembrare a tutti gli effetti un difetto è per me un pregio, il mio vanto maggiore. Sono pienamente consapevole che talvolta questo non ha giovato al mio percorso e il mio lavoro è passato un po’ in sordina, ma ne accetto pienamente e consapevolmente le conseguenze. Le mie opere non vanno viste, vanno vissute, nel tempo e nello spazio, in altro modo non si percepiscono correttamente e interamente nella loro tridimensionalità.