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Elena Bellantoni

Elena Bellantoni. Ph. Cristina Patuelli. Courtesy Fondazione Dino Zoli

Elena Bellantoni è nata a Vibo Valentia nel 1975. Vive e lavora a Roma.
È docente all’Accademia di Belle Arti L’Aquila e alla NABA di Roma. Dopo essersi laureata in Storia dell’Arte Contemporanea, studia a Parigi e Londra, dove nel 2007 ottiene un MA in Visual Art University of Arts London. Nel 2007 è cofondatrice di Platform Translation Group a Londra, nel 2008 apre lo spazio 91mQ art project space di Berlino. La sua ricerca artistica si concentra sui concetti di identità ed alterità utilizzando il corpo come mezzo di interazione. La parola e il linguaggio diventano incarnati, sono dispositivi esplorativi del sistema mondo che l’artista traduce attraverso l’utilizzo del video, la fotografia, le installazioni, le sculture e il disegno. Ha tenuto residenze in Europa e in America Latina e ha ricevuto diversi premi negli ultimi cinque anni. Nel 2018 è tra gli artisti vincitori della IV edizione dell’Italian Council del MIBACT; nel 2019 presenta il libro dell’intero progetto al MAXXI di Roma con un Focus sulla sua produzione video. Tra le monografie: Parole Passeggere, la pratica artistica come semantica dell’esistenza, Elena Bellantoni, Castelvecchi Editore 2023; Elena Bellantoni, una partita invisibile con il pubblico, a cura di Cecilia Guida, edito da Postmedia Books; Elena Bellantoni, On the breadline, a cura di Benedetta Carpi De Resmini, con testi di Stefano Chiodi e Riccardo Venturi edito da Quodlibet.

www.elenabellantoni.com

Intervista a ELENA BELLANTONI di Eleonora Bianchi

La poetica di Elena Bellantoni si concentra sull’analisi critica di eventi storici e contemporanei attraverso l’esplorazione di gesti e comportamenti umani. Tramite lo studio, prima, e il reenactment, poi, l’artista mette in luce il potere della propaganda e della manipolazione mediatica nella creazione dei regimi autoritari. La sua riflessione sulla banalità del male si intreccia con una visione – cinica ma tristemente veritiera – del mondo post-pandemico che evidenzia quelle pericolose derive autoritarie presenti anche nell’Europa contemporanea. La sua pratica artistica, che combina video, fotografia e performance, invita gli spettatori a una riflessione sulla memoria storica e sull’affermazione dell’identità individuale e collettiva. Ma soprattutto su quelle dinamiche di potere e controllo sempre uguali a loro stesse e destinate a ripetersi ciclicamente negli anni, laddove si troverà sempre un “uomo banale” disposto a rievocare la banalità del male.

Come è nata l’opera in mostra al Museo Sandro Pertini e Renata Cuneo: Banality of Evil in 69 gestures?
L’opera nasce come parte di una mostra curata da Giuliana Benassi e intitolata Post-turismo. Questa serie di mostre è stata organizzata subito dopo il periodo del Covid-19 e si è svolta in case che in precedenza fungevano da Bed & Breakfast, ormai chiuse. In particolare, io ho lavorato in uno spazio in via Tasso a Roma, situato vicino alla sede delle SS, dove un tempo avvenivano le torture contro gli antifascisti. Questo luogo è oggi il museo della Liberazione.

Nel tuo percorso artistico è fondamentale la figura e il corpo femminile, come si lega questa poetica all’opera in questione?
Nel mio percorso artistico, il corpo femminile riveste un ruolo fondamentale, poiché rappresenta il mezzo attraverso il quale esplorare temi legati alla società, al potere e alla rappresentazione di genere. Nell’opera Banality of Evil in 69 gestures mi interrogo sul modo in cui il corpo femminile può inserirsi nella gestualità di Adolf Hitler, una delle figure più violente del patriarcato. Con questo lavoro, esploro l’ambiguità di un corpo femminile che, mediante il reenactment, riscrive e riproduce un codice visivo e linguistico che sottolinea il “delirio del dittatore” e la prossemica dell’uomo forte da cui è nato il culto del capo. Mi interessa esaminare come il corpo femminile possa essere strumentalizzato e manipolato per perpetuare il potere e la violenza patriarcale, mettendo in luce le dinamiche di controllo e dominio presenti nella società.

Come si articola il tuo processo creativo?
Il mio processo creativo è un viaggio complesso che inizia tendenzialmente con un’ispirazione visiva o concettuale e si sviluppa attraverso un processo di ricerca e sperimentazione. Parto da un’idea o un’intuizione e poi la esploro attraverso varie fasi, che possono includere la ricerca di fonti, lo studio di concetti correlati, la raccolta di materiale visivo e la sperimentazione pratica. Soprattutto mi pongo delle domande: cosa succede se un corpo può riscrivere performativamente dei gesti? Significa che anche la storia può ripetersi?

Come scegli e come ti approcci al medium che utilizzi di volta in volta?
La scelta del medium e il mio approccio dipendono dalle esigenze e dalle sfide specifiche di ogni progetto. Ogni medium offre opportunità diverse di espressione e comunicazione, cerco di selezionare quello più adatto a trasmettere il concetto o l’emozione che desidero indagare. Considero il medium come uno strumento funzionale alla formalizzazione delle mie idee. Tuttavia, evito un approccio didascalico e cerco piuttosto di adottare una modalità di esplorazione che coinvolga diversi media e discipline. Forma e contenuto per me coincidono: con il mio lavoro cerco di restituire immagini, o meglio, immagini-azione. Per farlo, integro elementi provenienti da diverse discipline, come la storia, l’antropologia e la psicoanalisi, in modo da dare vita a opere che siano complesse e stratificate, in grado di stimolare interpretazioni differenti e coinvolgere gli spettatori in un dialogo significante e significativo.

Nei tuoi lavori utilizzi spesso la parola scritta mentre Banality of evil in 69 gestures è una sorta di film muto, alla Charlie Chaplin, è uno di quei casi in cui un’immagine vale più di mille parole?
Il corpo è un linguaggio composto da codici, un alfabeto che si forma con ogni gesto. Ho lavorato linguisticamente proprio su questi segni, che per me sono come parole. La video arte, per come la intendo io, ha le sue radici nelle prime sperimentazioni legate al cinema muto e al genere slapstick utilizzato da Buster Keaton e Charlie Chaplin. Ciò che mi interessa sono gli eterni tentativi di “sfondamento”, quelle azioni quasi impossibili che mettono in luce il “senso del non senso”, come direbbe Samuel Beckett.

Come si lega l’opera ai temi del festival CONNEXXION? E come li vivi nella quotidianità del tuo processo creativo?
L’opera si lega ai temi del festival – memoria, libertà e identità – attraverso una riflessione critica e provocatoria sulla ripetizione dei gesti e dei comportamenti che hanno caratterizzato periodi oscuri della storia umana. Il titolo stesso, Reenactment the Banality of Evil in 69 gestures, fa riferimento al concetto descritto da Hannah Arendt nel suo libro del 1963, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme. Hitler incarna iconicamente questo male assoluto, in cui uomini anche “banali” eseguivano gli ordini. In un contesto post-pandemico in cui emergono derive autoritarie in diverse parti del mondo, la mia opera vuole invitare a una riflessione critica sulle dinamiche di potere e controllo, sulla manipolazione delle masse e sulla necessità di essere vigili nei confronti di nuove forme di dittatura e populismo. Mi rendo sempre più conto della complessità in cui viviamo e dei giochi di potere di cui siamo spettatori. In questa parvenza di democrazia dominata dal capitalismo globale, dal consumo di cui siamo ormai tutti dipendenti, dovremmo forse iniziare ad assumere delle posizioni scomode, fuori dalla retorica, dal pietismo e dal qualunquismo. Siamo ormai come anestetizzati al dolore, alla sofferenza ma anche alla ricerca della felicità, che è stata sostituita dal benessere. Abbiamo costruito il nostro piccolo orto, le nostre certezze identitarie, pensando di essere sempre nel giusto e fidandoci del pensiero dominante. Abbiamo capito che qualcosa non andava e siamo comunque diventati testimoni passivi di guerre di confine e genocidi, firmando un accordo per una “tranquillità preventiva”, ma senza renderci conto di essere in libertà vigilata.
Banality of Evil in 69 gestures si inserisce, quindi, in un contesto più ampio di riflessione sulla memoria storica, la difesa della libertà e l’affermazione dell’identità individuale e collettiva, per invitare gli spettatori a interrogarsi sulle implicazioni etiche e politiche del passato e del presente.