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Silvia Margaria

Silvia Margaria

Silvia Margaria (1985) vive e lavora a Torino.
Dopo la laurea in Pittura passa tre anni all’archivio film della Cineteca del Museo Nazionale del Cinema di Torino, nel settore ispezione e catalogazione pellicole.
La sua metodologia di lavoro dà importanza al dialogo e alla partecipazione con altre tracce visive, tenendo conto del rapporto tra gli opposti, intesi come tensioni compresenti, dell’esperienza di relazione con la memoria, della complessità del rapporto tra uomo e ambiente.
Tra le mostre personali si ricordano: Anthologìa, Polo del ‘900, Torino (2022); La natura (non) ama nascondersi, CUBO Condividere Cultura, Bologna (2021); [Rapidità], Villa Brivio, Nova Milanese (2016); il lavoro site-specific Atmosfera, progetto di umanizzazione del reparto di Terapia Intensiva Neonatale dell’ospedale Sant’Anna di Torino, a cura di Arteco (2022).
Tra le collettive si segnalano: Body Frame, A Pick Gallery, Torino (2022); Weather Report, Galerie Hartwich, Sellin auf Rügen, Germania (2018); Punctum. Working Papers, Grattacielo Intesa San Paolo, Torino (2016).
Ha fatto parte di Progetto Diogene ed è co-fondatrice di Progetti Specifici.

www.silviamargaria.it

 

Intervista a SILVIA MARGARIA di Nicoletta Biglietti

Ricordare: conservare nella memoria e custodire nel cuore. Tutelare, in quei due “luoghi” in cui nulla va bandito o cancellato, ciò che ha permesso al presente di imparare dal passato.
Ed è proprio con l’obiettivo di riportare alla luce delle vite per troppo tempo restate “nell’ombra” che Silvia Margaria – nell’ambito della seconda edizione di CONNEXXION, Festival Diffuso di Arte Contemporanea, a cura di Livia Savorelli, dal titolo …per essere liberi. Tra identità e memoria – ha ideato la performance Bandite: un progetto in cui emerge il forte legame tra le donne che hanno combattuto per la lotta di Liberazione e il loro territorio; quelle donne che, all’indomani della fine della Guerra, hanno ripreso la loro vita senza rivendicare alcun ruolo speciale. Senza che venisse loro riconosciuto quello sforzo, talvolta costato anche la vita, che ha permesso un presente di libertà e memoria.

Bandite è un progetto performativo che accoglie in sé elementi storici e “naturali”, presenti e passati, in un dialogo tra epoche che ricorda l’importanza di una memoria che possa dirsi “viva”. Com’è nata l’idea alla base di questa progettualità?
Bandite è un lavoro che affonda le radici nella mia indagine artistica – incentrata sul ricordo e la dimenticanza – con l’obiettivo di valorizzare il territorio savonese e la sua memoria, e in particolar modo il ruolo fondamentale delle figure femminili nella lotta di Liberazione.
Un progetto che si è rivelato una ricerca stimolante per me, perché non essendo originaria della terra ligure, mi sono messa in una condizione di ascolto e studio profondo, riuscendo così a realizzare l’atto performativo che ha avuto luogo il 20 aprile 2024 davanti al Monumento alla Resistenza di Agenore Fabbri, in piazza Martiri della Libertà a Savona. L’idea – realizzata in collaborazione con ANPI e l’Associazione “A Campanassa”, oltre alla partecipazione degli sbandieratori del Comitato Palio Castell’Alfero (AT) – è nata in seguito ad un sopralluogo ai vari cippi commemorativi di fronte ai quali si svolgono solitamente i riti in ricordo dei caduti della Resistenza; l’aspetto che più mi ha colpito è che attorno a questi monumenti la vegetazione è sempre presente, è un simbolo di vita che rinasce in un luogo di commemorazione e ‘morte’.
Da qui il pensiero di lavorare sulla flora “resistente” del territorio accostando all’elemento naturale, ovvero ai fiori, le biografie di alcune partigiane savonesi, il cui ricordo – di vita, sforzo e sacrificio – era stato “bandito” per troppo tempo, ma che era necessario far riaffiorare in superficie. Far rinascere.
Su ciascuna delle sei bandiere Bandite c’è una parola, presa dai cippi commemorativi delle partigiane: ’CORAGGIO’ e ‘RESISTENZA’ dalla lapide di Clelia Corradini a Vado Ligure, ‘CADDERO’ e ‘LIBERTÀ’ dalla targa dedicata a Franca Lanzone, Paola Garelli, Luigia Comotto alla Fortezza del Priamar a Savona, ‘MEDITA’ dal cippo di Ines Negri ad Albissola Marina e ‘CURA’ dalla targa dedicata alla memoria delle Suore “Maria bambina” all’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure. Ogni bandiera è di una diversa gradazione di rosso e presenta una particolare e caleidoscopica composizione floreale, ciascuna costituita da un fiore differente scelto tra alcune delle specie della flora ligure minacciata (Campanula del savonese, Scilla della riviera, Erica cinerea, Genziana ligure, Orchidea patente, Tulipano dei monti).

Il contributo di queste donne è stato per troppo tempo celato e ci sono voluti molti anni prima che si cominciasse a parlare sia in generale della Resistenza delle donne, sia della loro scelta di combattere come raggiungimento di una “consapevolezza di sé”. Come hai deciso di comunicare la storia delle partigiane savonesi in un progetto performativo di valorizzazione territoriale?
Il paesaggio e le “persone” costituivano un’unica e solida base per la Resistenza. O meglio, come disse Italo Calvino nella prefazione del ‘64 de Il sentiero dei nidi di ragno, “la Resistenza rappresenta la fusione fra paesaggio e persone”.
Una fusione che desideravo tradurre nel rapporto tra le biografie delle partigiane e la narrazione territoriale rappresentata dai fiori, e valorizzare con un gioco serio, quello della bandiera. Durante i riti di commemorazione dei caduti della Resistenza si eseguono, davanti al cippo che ricorda il sacrificio della partigiana o del partigiano, anche gli onori della bandiera: le bandiere del Comune, dell’Anpi e di altre associazioni vengono sventolate una dopo l’altra, e questa gestualità ha suggerito l’elemento formale della performance, le bandiere. Nel corso del tempo le bandiere sono state utilizzate per rappresentare un’ideologia, un credo, un’appartenenza, ma anche un’esigenza strategica e comunicativa; il compito degli sbandieratori durante le guerre era quello di trasmettere – attraverso lanci e sventolii – messaggi specifici ai vari reparti bellici. Così come gli sbandieratori se catturati dai nemici dovevano custodire i segnali del codice della danza fino alla morte, anche i partigiani e le partigiane dovevano “comunicare” silenziosamente e nascondere informazioni, persone e anche armi, a costo della vita.
E il titolo della performance riflette proprio quel duplice significato di mostrare e celare: il termine bandite, infatti, ha la stessa radice etimologica di ‘bandiera’, perché entrambi derivano dalla parola ‘bando’, ovvero quell’avviso di interesse pubblico che deve essere reso noti a tutti; tuttavia ‘messo al bando’, e quindi bandito, acquisisce l’accezione di accantonare, lasciare da parte qualcosa, e quindi di escluderlo, dimenticarlo. Il termine ha quindi un doppio significato che somma due opposti, nascosto e manifesto. Il contributo delle partigiane è stato per troppo tempo ai margini, nascosto; ci sono voluti molti anni prima che si cominciasse a parlare della Resistenza delle donne, che si riuscisse a parlare della loro scelta di combattere nella guerra partigiana come di una consapevolezza di sé e del proprio valore, che le partigiane riuscissero a raccontare le memorie che loro stesse avevano bandito.

C’è un aspetto che – durante la performance – ti ha particolarmente emozionato?
Un aspetto che mi ha colpito molto, nonostante la sua completa e naturale concretizzazione, è stato che gli sbandieratori fossero ragazzi e ragazze giovanissimi che hanno prestato la loro conoscenza e la loro abilità pratico-tecnica per ricordare chi – e mi riferisco ovviamente alle donne della Resistenza savonese – ha dato la vita per difendere valori e ideali.
“«Dare la vita»: le stesse parole per significare il mettere al mondo qualcuno e l’esser pronta a morire”. Questa frase di Benedetta Tobagi in La Resistenza delle donne, esprime, tesa e giusta come un fuso, il principio della lotta partigiana tutta, perché la vita l’hanno data per far sì che tutte le vite venute dopo potessero crescere senza oppressori.
Ho immaginato che i ragazzi e le ragazze con gli sventolii delle bandiere esprimessero appieno la frase di Fenoglio “une petite affaire toute serieuse” e che, con i loro gesti nel muovere le bandiere Bandite, abbiano contribuito a confermare non solo una coscienza antifascista, ma la convinzione a scegliere la libertà ogni giorno, contro ogni ideologia escludente, contro ogni violenza.

 

SILVIA MARGARIA. BANDITE
SPECIAL PROJECT. Piazza Martiri della Libertà

Il progetto Bandite di Silvia Margaria è dedicato ad alcune partigiane del savonese – Clelia Corradini, Ines Negri, Franca Lanzone, Paola Garelli, Luigia Comotto – e alle Suore “Maria bambina” dell’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure, che sono testimonianza del ruolo fondamentale delle donne nella lotta di liberazione e sono simbolo delle tante martiri per la libertà. Durante i riti di commemorazione dei caduti della Resistenza si eseguono, davanti al cippo che ricorda il sacrificio della partigiana o del partigiano, anche gli onori della bandiera: le bandiere in quell’occasione sono tante e diverse, e tutte vengono fatte sventolare con fermezza e trasporto.
Il progetto Bandite si compone di una serie di bandiere, una per ogni partigiana, create in modo da poter essere maneggiate da un gruppo di sbandieratori. Gli sbandieratori nacquero nel Trecento come “segnalatori” durante il periodo di guerra. La bandiera era simbolo dell’orgoglio cittadino, ma esprimeva anche un’esigenza strategica perché attraverso i diversi e molteplici colori, poteva essere un punto di riferimento e riconoscimento durante il combattimento. Il compito degli sbandieratori era infatti quello di comunicare con i reparti attraverso lanci e sventolii, indicando, secondo un codice ben preciso, le fasi salienti della battaglia. Gli sbandieratori dovevano essere fedeli, discreti ed ingegnosi, e se venivano catturati dai nemici dovevano custodire gelosamente i segnali del codice della danza, mantenendo il segreto fino alla morte. La lotta partigiana è nuda esperienza esistenziale animata da un’elementare spinta di riscatto umano, che ha richiesto l’incondizionata e totale adesione di uomini e donne anche loro fedeli, discreti ed ingegnosi, che dovevano intendersi in silenzio e agire all’unisono, nascondendosi e nascondendo informazioni, persone, armi, a costo della vita.
Bandite si sviluppa nella forma di una performance messa in atto da sbandieratori professionisti che, attraverso una coreografia studiata, muovono e “attivano” le bandiere Bandite. Da sempre la bandiera è stata utilizzata per rappresentare un’ideologia, un credo, un’appartenenza. La bandiera è simbolo di valori e la danza messa in atto dagli sbandieratori può diventare simbolicamente un nuovo processo di valorizzazione di storie nella Storia.